RITORNO ALLA SOBRIETÀ

Da "Nike" a "Pikachu" fino a "Torino": in Giappone impazzano i nomi stravaganti e il governo mette un freno

Una nuova norma giapponese dice basta ai nomi "kirakira" (scintillanti), troppo creativi, impronunciabili e fonte di confusione o ilarità

Da "Nike" a "Pikachu" fino a "Torino": in Giappone impazzano i nomi stravaganti e il governo mette un freno
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In Giappone, scegliere il nome del proprio figlio è sempre stato un momento carico di significato. Ma negli ultimi decenni, per molti genitori si è trasformato in una vera e propria sfida all’originalità, a colpi di creatività linguistica e riferimenti alla cultura pop. È così che sono nati bambini di nome Pikachu, Naiki (sì, proprio come il marchio Nike), Kitty (Hello Kitty docet), Daiya (“diamante”) e persino Akuma, che in giapponese significa "diavolo".

La moda dei nomi "kirakira"

Una moda esplosa a partire dagli anni ’80-’90 e che ha dato vita ai cosiddetti nomi kirakira, ovvero “scintillanti”, nomi fuori dagli schemi, spesso presi da anime, cartoni, brand famosi o semplicemente inventati combinando caratteri kanji con pronunce poco ortodosse.

Tra i casi noti, ha fatto scalpore quello di Seiko Hashimoto, ex campionessa olimpica e volto noto della politica giapponese. Ha chiamato i suoi figli Girishia (Grecia) e Torino, in onore delle città in cui si sono svolte le Olimpiadi negli anni in cui sono nati. Lei stessa ha scelto i kanji e ne conosce la lettura, ma – come raccontano i media – nessuno riusciva a pronunciarli correttamente al primo colpo.

Ma ora il governo giapponese ha deciso di mettere un freno a questa tendenza. Da pochi giorni sono entrate in vigore nuove regole che puntano a riportare un po’ d’ordine nella giungla anagrafica. E soprattutto a risolvere una serie di problemi pratici: nomi troppo strani, spesso illeggibili o ambigui, stanno creando non pochi grattacapi nelle scuole, negli ospedali e negli uffici pubblici.

Come funziona il caos dei nomi?

Per capirlo bisogna ricordare che la lingua giapponese si basa su tre sistemi di scrittura, ma i nomi sono generalmente scritti in kanji, i caratteri di origine cinese. Il problema? Ogni kanji può avere molteplici pronunce, anche dieci o più, e quando i genitori scelgono combinazioni inusuali per creare suoni nuovi o bizzarri, il risultato è che nessuno sa più come si legge davvero quel nome. Neanche gli insegnanti o i medici.

Nei casi più estremi, la situazione rasenta il paradossale: un nome scritto come un proverbio classico potrebbe essere letto “Winnie”, perché il genitore voleva omaggiare Winnie the Pooh. O ancora, un carattere antico per "luce" abbinato a un altro per "suono" diventa, magicamente, “Pikachu”.

Le nuove regole: via libera alla pronuncia standard

Con la revisione della legge sul registro di famiglia (koseki), i genitori dovranno ora dichiarare esplicitamente la lettura fonetica del nome scelto. Ma soprattutto, saranno ammesse solo le pronunce convenzionali e ampiamente accettate dei kanji. Se il nome risulta troppo “creativo” o fuori standard, le autorità locali potranno rifiutarlo o chiedere documentazione aggiuntiva. In casi estremi, anche suggerire un nome alternativo.

La motivazione ufficiale? Ridurre la confusione burocratica e semplificare la digitalizzazione dei servizi pubblici, dove nomi impronunciabili o ambigui bloccano i sistemi informatici. Ma dietro le quinte, c’è anche una riflessione più ampia sulla tensione fra individualismo e conformismo nella società giapponese.

Una riforma che fa discutere

La decisione ha diviso l’opinione pubblica. Se da una parte c’è chi plaude al ritorno a una maggiore sobrietà e chiarezza, dall’altra c’è chi parla di una limitazione alla libertà personale. Altri sottolineano come questi nomi rappresentino l’unico vero spazio di espressione individuale in un paese dove le regole sociali sono ancora molto rigide.

In realtà, le autorità hanno già cercato di tranquillizzare: non ci sarà una “censura totale”, ma si interverrà solo nei casi più estremi. Per esempio, Pikachu probabilmente sarà bocciato, ma Daiya - chissà - potrebbe ancora cavarsela.

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